A cura di Vito Caldaro

Galleria Formaquattro Bari, 22 giugno - 9 luglio 2016
Via Argiro 7370121 Bari (Ba)
Già nel maggio del 1990, il filosofo Gilles Deleuze scrive nel suo “Poscritto sulle società di controllo” qualcosa che solo di recente sociologi come
David Lyon o il più noto Zygmunt Bauman hanno potuto approfondire; ovvero l’idea che la società contemporanea sia impalpabilmente presa da una
profonda trasformazione antropologica, che la vede suo malgrado dentro un dispositivo di auto-sorveglianza. Si’, perché ciò che fino al secolo scorso
era circoscritto al solo luogo di detenzione carcerario – il Panopticon (il sorvegliante osserva (opticon) tutti (pan) i soggetti di una istituzione carceraria
senza che questi se ne accorgano) -, oggi è dappertutto. Synopticon, dunque: sorta di non-luogo ubiquitario, dove la maggioranza degli individui è in
grado di vedere e controllare una piccola minoranza; osservare (opticon) insieme (syn). E ci viene subito in mente la potente struttura reticolare
dell’universo Google. Ma qui ci si vuole soffermare essenzialmente sul dispositivo satellitare che informa l’applicazione Google Earth, dove chiunque
può “sorvolare” il pianeta terra, e “fiondarsi” sul dettaglio in soggettiva di una qualsiasi strada, piazza, vicolo – talvolta persino di attività commerciali –
impiegando l’omino giallo di Street View, così da poter curiosare le infinite posture dei passanti, dei mezzi di trasporto, insomma del brulichio della
vita en plein air.
Ora, ciò che ho cercato di fare, e’ raccogliere queste informazioni ottiche, passando di continente in continente, per tentare un corto-circuito
percettivo; una sorta di blow-up pitto-grafico – per richiamare l’omonimo film del magistrale Antonioni. Chiariamo: che si sia controllati, questo oramai
è un fatto, e’ stupido meravigliarsene. Che siamo noi stessi ad alimentare quotidianamente l’immenso archivio dei cosiddetti BigData, e’ altrettanto
noto – soprattutto dopo le rivelazioni di uno degli uomini più perseguiti del pianeta, l’ex tecnico della CIA, Edward Snowden. Ma cosa accade quando
la ricerca aerospaziale e l’informatica, concentrate nelle mani di un pool di ricercatori ben remunerati, si somma ad un permanente aggiornamento dei
nostri movimenti cittadini, attraverso la giustapposizione cinematica di rapidi scatti fotografici? Ecco come l’alto e il basso sembrano interagire in
Google Earth. Sulle prime, può apparire persino piacevole viaggiare per il mondo, non più con la sola immaginazione, ma potendoci mettere i nostri
occhi. Siamo molto lontani dal Giro del mondo in ottanta giorni. Qui, siamo nella virtualità e nell’immediatezza pura. A ben vedere, la produzione
invisibile dell’immaginario è sempre più sostituita dal suo surrogato: il “già visto”, colto dal nostro sguardo ingenuo come “non ancora visto”. E siamo
lì a bocca aperta, davanti al monitor, mentre con il mouse peregriniamo per le strade di una città. E nell’apparente anonimato degli individui “catturati”
dall’automezzo Google – che dispone di ben 15 telecamere orientate nell’intero spazio di 360° – possiamo talvolta scorgere curiose interazioni: ho
persino “beccato” un pusher brasiliano porgere “la roba” ad un turista dalle grate di una porta scalcinata! Dicevamo, apparente anonimato… I volti dei
passanti sono sì oscurati, ma quella “minoranza” che abita il pianeta e’ tale perché rappresenta un campione rilevato e subito archiviato dal team
della Sylicon Valley. Ma nella realtà, quel campione è maggioranza, siamo tutti noi! Dunque, maggioranza che sorveglia dopotutto se stessa. Autosorveglianza,
per l’appunto. E allora, questo synopticon va in qualche modo cartografato, laddove questa operazione non si limita ad una passiva,
post-moderna, scansione dell’esistente. Sarebbe cosa piuttosto triste e didascalica. Mi ci voleva uno scarto, qualcosa che detournasse – alla maniera
dei Situazionisti – quelle catture, la liquidità del controllo. L’atto pitto-grafico come gesto politico, dunque. Restituire a quella virtualità binaria di pixel
che ricompone i nostri contorni di uomini e donne, qualcosa di impercettibile. Sabotare l’archivio di immagini fotografiche e comporre “un”
immaginario tra i tanti. Ecco che la preliminare e sfiancante selezione di scatti in Street View, è divenuta, da un lato, calligrafismo antico,
partecipazione emotiva al nomadismo metropolitano – nella serie di disegni in sanguigna su carta giapponese; dall’altro, “astrazione figurale” (per
usare un ossimoro), nella scarnificazione frattalica del segno grafico su PVC, dove l’ingrandimento smisurato, accanto alla trasparenza vuota del
supporto, tentano di minare la sicurezza sorvegliante del nostro sguardo. Cosa decisamente più ludica, ma nondimeno centrata sul tema del divenireimpercettibile
(Deleuze), è il video da me musicato. Qui, lo sguardo del fruitore si può perdere nell’incongruita’ molteplice dei piani sovrapposti. Il
tentativo di musicalità delle immagini in movimento sembra doppiare la musica, ed è forse solo così che si possono chiudere gli occhi e immaginare il
possibile. “Datemi del possibile, altrimenti soffoco!”